Interviste libro culinarie di
Federica Gnomo
Oggi salutiamo e
ringraziamo Stefania Mereu, autrice sarda,
esordiente con il romanzo: “Lo specchio
di Eveline”, Photocity Edizioni (Napoli, Gennaio 2012), per averci aperto
la porta della sua cucina.
Ci parli un pochino del suo romanzo.
Per presentare il romanzo, mia prima monografia, vorrei precisare che la
copertina è stata realizzata da Ugo Ciaccio, e riportare la quarta di
copertina, scritta dalla editor, Chiara Tortorelli, che ha curato il testo per
la collana Homo Scrivens, diretta da Aldo Putignano (tutti napoletani, insomma,
e che ringrazio per la bella esperienza che ho condiviso con loro):
“Cosa accade nel momento esatto in
cui il presente incontra il passato?
Un bambino, un quadro ed Eveline,
una donna malinconica, vivono ancora tra le pareti di una casa che custodisce
con cura i suoi misteri. Julia, invece, è una donna di oggi, moderna,
indipendente, bella, che si innamora di quella casa antica piena di segreti…
Nello scenario di una villa d’altri
tempi s’incontrano, riflesse in uno specchio, due donne separate dai secoli
eppure unite da qualcosa d’impalpabile che a stento sembra rivelarsi.
La prosa della Mereu ci trasporta fuori dal tempo,
a metà strada tra realtà e sogno, alla ricerca di una verità nascosta
attraverso intrighi e amori millenari, fino a raggiungere il cuore di un finale
inaspettato.”
Ora veniamo al cibo! La prima
domanda di rito è: le piace mangiare bene?
Bene, certo! Nel senso di qualità,
e penso in modo convinto che anche le ricette semplici richiedano preparazione
e ingredienti di qualità. Come per la scrittura o altra forma di arte anche
quella culinaria necessita di tecnica e prima o poi bisogna impararla anche nell’improvvisare
inventando nuove ricette. Qualità, anche senso che eccedere nei pasti consente
solo di perdersi il meglio, magari portate che arrivano dopo, delle volte.
Durante una cena, per esempio, preferisco più assaggi che mangiare una o due
portate.
E cucinare?
Mi piace tantissimo, è uno dei miei hobby preferiti e adoro cucinare fin da
piccolissima, dove per usanza, in Ogliastra, dove sono nata, precisamente in un
piccolo Paese chiamato Jerzu, le bambine venivano abituate presto su ogni cosa
che riguardasse l’indipendenza, lo
vivevamo come un gioco, specie in tutto ciò che riguardava la casa, quindi
anche la cucina e l’arte culinaria. Ho riprodotto vecchie ricette tradizionali
anche grazie al ricordo delle varie
fasi di preparazione perché bazzicavo
in cucina quando venivano preparate pietanze o dolci tradizionali, particolari,
magari per eventi come matrimoni, battesimi ecc.
All’epoca non si svolgevano in ristorante, ma richiedevano preparazioni
lunghissime, notti comprese.
Lo fa per dovere o per piacere?
Sicuramente è un piacere. Diventa un dovere, nel senso che sveltisco e
quindi uso preparare cose più veloci quando ci sono delle priorità. Per esempio,
per motivi di lavoro. Oppure, seppur è molto indipendente, quando mia figlia mi
chiede qualcosa che riguarda la scuola (tanto mi diverto tantissimo), o se sto
scrivendo, revisionando un manoscritto, o se sono nella fase di studio, oppure
ultimare di leggere un romanzo che… prende!
Invita amici o è invitato?
In genere tutt’e due le cose, ma se sono invitata e ho confidenza è difficile che non mi armi di grembiule, che non
leghi i capelli e che non mi intrufoli
ad aiutare e fare qualcosa: bellissimi momenti che sempre conservo tra i
ricordi. Considero la cucina un posto magico e dove le persone si aprono meglio che nel contesto di un
salotto. E ci si diverte un mondo!
Ha mai conquistato amici o un uomo cucinando?
Sicuramente! Ma sono anche stata conquistata in questo modo. Con gli amici
sono “chiamata” per gli antipasti,
per esempio. Mi piace molto decorare, da sempre, così come anche i dolci o
tutto ciò che è ricevere. Quindi anche il presentare la tavola in un certo
modo, a meno che non ci sia qualche improvvisata
e allora è diverso, ci si adatta anche a una spaghettata all’aglio, olio e
peperoncino.
Vivrebbe con un compagno che non sa mettere mani ai
fornelli?
Nel caso, avrei fatto in modo che imparasse! Mio marito è anche qualificato
in questo campo e ho imparato molto da lui come chef, è giusto che lo dica e
ribadisco che la tecnica aiuta e diciamo che corrisponde al lavoro di un editor
in un libro che merita di uscire.
Quando ha scoperto questa sua
passione?
Da piccolissima, ripeto e ho un aneddoto che mi riporta indietro a quando
avevo meno di sette anni. Lo dirò più in là…
Ci racconta il suo primo ricordo
legato al cibo?
Il cibo è qualcosa che deve dare piacere al palato, ma anche alla vista,
all’odorato e al tatto.
Il ricordo è questo: forse avevo cinque anni quando incuriosita dalla
bellezza dei fiori di calle ne avevo rubata una dal vaso, a casa della nonna
materna. Mi ero nascosta e avevo voluto ardentemente assaggiare il gambo che
trovavo invitante, succosissimo… ma fu un’esperienza negativa al palato, che
ancora ricordo bene anche come sapore, per carità!
Ha un piatto che ama e uno che detesta?
Adoro gli antipasti, ma anche i primi piatti conditi con verdure e mantecati.
Meno la carne che però mi piace cucinare, o anche il pesce. Detesto (senza se e
senza ma) le lumache, i bocconi di mare, i tartufi e… il coniglio, ma per
quello c’è un motivo legato all’aneddoto che dirò dopo. Tutto il resto lo gusto
senza problemi, anche un pezzo di pane
carasau con sopra il filo d’olio extravergine d’oliva e sale (anzi accompagna
bene gli antipasti e non solo di mare! Ed è un ottimo stuzzichino).
Un colore dominante proprio di cibi
che la disgustano?
Tutti i colori sono colori, anche per i cibi che non prediligo e che ho
detto prima. Trovo affascinante anche
un piatto al nero di seppia o bellissimo l’aspetto
di una pasta alla carbonara ben fatta, simpatico
un antipasto con forme di animali o fiori ecc. (mi diverte tanto prepararli
e per me è un gioco davvero bello e rilassante… spesso ho fatto anche dei
quadri che componevano un antipasto e ho gli attrezzi che porto sempre dietro,
non si sa mai! E non ne faccio mai uno
uguale, però!).
Quando è in fase creativa ha un rito
scaramantico legato al cibo?
Sì, e diciamo che è legato alla mia cultura ogliastrina, grazie alla nonna
e alla mamma. Nell’ordine: il segno della croce, capelli legati o raccolti da
un fazzoletto, grembiule, poi si entra in cucina e sugli ingredienti di nuovo
il segno della croce.
Prende caffè? O tè, una bibita
speciale per stare fermo a scrivere?
Quando scrivo non mi accorgerei neanche se smettessi di respirare. Mi reco
in un altro mondo e mi volano le ore senza che io mi accorga. Spesso dimentico
anche i più normali bisogni fisiologici come bere o altro…
Scrive mai in cucina?
Scrivo dappertutto, nel senso che osservo molto e spesso devo avere almeno
carta e penna in borsa. L’osservare tutto, ma in modo discreto, è un gioco che
facevo fin da bambina e se trovo un personaggio interessante o una situazione
particolare prendo appunti ovunque io mi trovi. Ma per scrivere, come per leggere, è necessario fermare tutto,
come se il mondo smettesse di girare: una sensazione intima che cattura senza
appello. E meno male.
Altrimenti dove ama scrivere?
Nella scrivania di casa, se si tratta di manoscritti in scrittura o in
revisione o stesure di racconti. Ho una calligrafia orribile, ho usato la macchina
da scrivere, ma il computer è ormai insostituibile per scrivere e ci si deve
“fermare” e fermare il tempo.
E a che ora le viene più naturale?
Ogni momento libero. Scrivo la notte, nei week end, quando sono in ferie, o
quando sono stata costretta (raramente, per fortuna) a sottostare a riposi
forzati: es. in malattia.
Si compra cibo pronto ( tramezzini, pizza,
snack) o si cucina anche quando è molto preso dalla scrittura?
Non amo i cibi pronti, a eccezione della pizza. Mi piace anche la pizza
fatta in casa e mi diverte anche “avere le mani in pasta”, quindi fare la pasta
fresca per i diversi usi.
Che tipo di cibo desidera di più quando scrive ed è preso dal suo lavoro?
Salato o dolce? Dipende. Prediligo il salato, comunque. Es. Olive.
Ha un aneddoto legato al cibo da
raccontarci? O una cosa carina e particolare che le è accaduta?
L’aneddoto ve l’ho annunciato prima e sono tra le cose che non si
dimenticano; se ci penso ogni volta sorrido, ora lo ritengo comico, addirittura,
ma all’epoca l’avevo vissuto un po’ come un dramma d’infanzia. Premetto che ho
avuto una madre di salute cagionevole fin da piccola e soggetta spesso a lunghi
ricoveri per interventi, terapie, ecc. Uno di questi ricoveri avvenne nel ’72 e
non avevo ancora compiuto i sette anni. Io e miei fratelli (sono la più piccola
e ho un fratello e una sorella di poco più grandi di me) stavamo spesso con la
nonna materna quando lei era a Cagliari in ospedale e durante il giorno e la
sera con mio padre. Un giorno mi trovavo sola in casa, lo ricordo come fosse
ieri e al mio piccolo paese era normale che potesse accadere. Avevo visto il
coniglio tagliato e messo sotto aceto dalla nonna per poterlo cucinare alla
cacciatora. Siccome osservavo sempre anche come preparavano i pasti
furtivamente mi ero messa a cucinarlo io quel giorno. Quanto ero felice di poter
fare la donna grande che aveva una cucina tutta sua! Avevo fatto tutto grazie
alla memoria che avevo di mia madre che lo preparava, come se fosse presente e mi
guidasse in ogni fase. Peccato che scambiai lo zucchero con il sale e venne
fuori un coniglio alla cacciatora un po’ “caramellato”. C’ero rimasta
malissimo, tutti mi incoraggiavano, dicevano che ero stata brava e mio padre ne
mangiò anche un pezzo facendo finta di assaporarlo come fosse la cosa più
buona. Mio fratello e mia sorella, invece, avevano un’espressione che diceva
tutto il contrario. Avevo capito, che era disgustoso e che mio padre l’aveva
mangiato solo per amore paterno. Averci provato era importante e fu la nonna
dirmi queste parole. Non le dimentico e prima di darmi per sconfitta, in tutto,
sono ormai abituata a provarci. Così è per tutte le cose e forse grazie a
quell’episodio.
Lei è un’autrice di racconti,
romanzi, che abbracciano generi come il romanzo sociale, con vena noir o mistery,
quando esce a cena con i suoi figli, o amici
che tipo di locale preferisce? Ho una figlia e si esce sempre meno ormai. In genere va benissimo anche una
pizzeria e i ristoranti li frequento più raramente, visto il periodo, o più per
motivi legati al mio lavoro.
Cosa tende a ordinare in un locale?
Nella fattispecie una pizza (mi piace quella ai peperoni grigliati e
ridotta, oppure alla salsiccia sarda secca e pecorino), Non deve mancare il
dessert, in genere gusto una crema catalana o gelato al tartufo bianco affogato
nel caffè caldo.
Se sono in ristorante mi faccio guidare da maitre o dal cameriere!
Ha mai usato il cibo in qualche
storia?
Tante volte, direi quasi sempre.
Nella quasi totalità delle storie che ho scritto, anche racconti, così come ne Lo specchio di Eveline, ci sono passi che ricordano ciò che dei
sensi è stimolato anche dal cibo.
Lei evoca
con il cibo? Sì, Anzi, il cibo
spesso è legato ai ricordi. Un po’ come fare una torta, usare il lievito Pane
degli Angeli della B… (non so se si può citare il nome commerciale) e ricordare
“Maria Rosa”, per intenderci! Anzi, a
volte la canticchio!
Il cibo è mai protagonista? Sì, ripeto, lo è stato in varie storie.
Anche nelle letture si impara l’importanza del cibo e siamo anche noi una
generazione che ha sempre “mangiato” per almeno tre pasti al giorno. Mi viene
in mente un esempio:
“ Cecità” di Saramago, libro che trovo anche magistrale nella sua scrittura
(ma lo amo anche come scrittore, meritato Nobel) è il primo libro che mi viene
in mente e dove il cibo è protagonista in modo quasi prorompente, significativo.
Questa cosa mi aveva quasi turbato per la crudezza che aveva generato andando
avanti nella lettura e consiglio la consiglio. Usare l’espediente letterario
come faceva lui, contrattare il tutto
con il lettore vuol dire farsi catturare dal testo, dalla storia, personaggi e
contesti e valutare anche ciò che l’essere umano è capace di fare in negativo,
o positivo, pur di trovarsi in una situazione all’apparenza impossibile e “mangiare” o dividere il cibo diventa
vitale non tanto per il sostentamento in sé … un libro che non ha bisogno di
essere legato a ricette particolari proprio perché è il cibo come “ricchezza” fonte di avarizia e cattiveria pura o risorsa da condividere. Questo che fa pensare e non svelo l’espediente
per chi non l’avesse letto. Cerco sempre anche io di inserire l’espediente
letterario e grazie a esso il libro si scrive da solo, con pochi altri elementi
che poi mi portano a studiare l’epoca, usi, costumi ecc. e la cosa mi assorbe
sempre e in modo rinnovato.
Nelle sue presentazioni offre un
buffet?
No, trovo che sia un “non valore
aggiunto”.
Lo considero quasi spocchioso. O perlomeno se io partecipo a qualche
presentazione di altri autori non ho alcuna necessità di mangiare. Diciamo che
è l’ultimo pensiero.
Se dovessi offrire qualcosa, penso che metterei al massimo una coppa di
cioccolatini all’uscita, rigorosamente solo all’uscita, magari legati uno a uno
con un segnalibro che abbia stampata la cover e la quarta del libro o una
citazione.
Per concludere ci potrebbe regalare
una sua ricetta? Quella che le riesce meglio?
Certamente. Mia figlia ha scelto questo piatto che vi propongo e l’aveva
chiamato “ La pasta dell’amore”. A questo piatto è legato un momento
particolare, purtroppo triste, e volevo toglierle quell’ombra sul viso. Mi ero
inventata una ricetta “magica” capace di far sorridere, lei era piccola e aveva
funzionato. Ancora oggi la preparo ed evoca in mia figlia qualcosa che la fa
stare bene sempre.
Eccovi la ricetta, semplice e veloce:
FARFALLE DELL’AMORE
Ingredienti:
Cipolla, Zucchine, pomodorini ciliegino, basilico fresco, olio d’oliva
extravergine, origano, sale q.b., farfalle (o comunque pasta corta, tipo mezze
penne).
Esecuzione:
Far appassire la cipolla tritata con l’olio extravergine in una padella
antiaderente o in ceramica, abbastanza capiente. Tagliare le zucchine a quarti
di rondelle e unirle alla cipolla e farle cuocere a fuoco abbastanza vivo,
Tagliare in due i pomodorini e unirli poco prima quasi a cottura ultimata delle
zucchine. Regolare di sale, e nel frattempo preparare la pasta in abbondante
acqua salata. Tagliuzzare del basilico fresco, unirlo al condimento insieme a
una spruzzata di origano. Quando è a metà cottura la pasta versarla dentro la
padella non scolandola bene e se necessario far finire di cuocere la pasta con
il condimento unendo qualche cucchiaio con un po’ di acqua di cottura (in
questo modo, l’amido della pasta non verrà perso del tutto nell’acqua). Per
impiattare, dopo aver adagiato la pasta sul piatto preparo delle rose con la buccia di pomodoro e sotto adagio
delle foglie fresche di basilico. Poi, spolvero il piatto con il basilico
tritato di fresco (vedi foto).
Servire subito e buon appetito!
Quale complimento le piace di più come
cuoca? “Tutto buonissimo!”
Sentire questo mi rende felice e ripaga
di ogni fatica legata alla preparazione!
E come autrice? Tra i tanti messaggi ricevuti (in seconda pagina
del libro c’è il mio indirizzo di contatto elettronico in FB) riporterei il commento
di una lettrice romana che mi aveva scritto in privato un bellissimo messaggio.
Non lo faccio, ma mi aveva sorpreso in modo positivo per ciò che mi aveva
scritto. Dopo averle chiesto il contatto in Facebook mi ha poi scritto un
commento dove diceva che per ben tre volte l’aveva letto! Spero di incontrarla un
giorno, conoscerla di persona. Penso sia proprio una brava persona, me lo
sento.
Che frase tratta dalla sua opera o
dalla sua esperienza possiamo portarci nel cuore uscendo dalla sua cucina?
Trarrò tre pezzi che riguardano un party a Villa Eveline, a Val d’Oise,
vicino a Parigi e quindi ho l’occasione per dire che non è un romanzo
ambientato in Sardegna. Altri manoscritti, sì, lo sono, ma non mi piace
scrivere solo di Sardegna e penso per davvero che tutto il mondo è paese. Ho
scelto parti che non svelano la trama, che non contengono cose particolari, ma potrebbero
essere significative per il contesto e non solo per quello:
“… Anche io chiudo il diario, lo nascondo di nuovo tra le mie bozze e mi occupo
del party per alcune ore.
Venerdì arriva puntuale.
Ce l’ho fatta, sono esausta ma anche soddisfatta:
l’evento voluto da Didier sta per avere luogo. Non è stato facile, tutto però è
pronto fino all’ultimo dettaglio. I gazebo, con ogni ben di Dio, sono stati
allestiti a bordo piscina. I camerieri nella loro candida divisa si aggirano
per ultimare la disposizione dei piatti e delle bevande sui lunghi tavoli
coperti da tovaglie di lino color panna e sopra delle guide color ocra. I
fiori, il verde del giardino, gli alberi, cespugli e le siepi del parco rendono
la scenografia un tripudio di colore e vita. Ho perlustrato tutto quanto, prima
di prepararmi. Sono ampiamente soddisfatta del risultato finale e… gli invitati
stanno per arrivare.
… L’orchestra inizia a suonare, quando insieme a lei torno verso il
giardino.
Io e Didier apriamo le danze: quello sarà l’unico ballo che faremo insieme
in tutta la serata. Per il resto della festa è Constance che godrà delle sue
braccia. Converso ancora con Jacques, che non ama ballare, poi ancora con
Cecile, i miei suoceri, alcuni dirigenti dell’azienda e altri invitati.
Non vedo l’ora che la serata finisca.
L’oscurità predomina tutto a un tratto, avvolgendo nelle sue spire il
crepuscolo e calando severa nel parco. Solo lo spazio dedicato al party riesce
a contrastarla, con le luci che lo illuminano.
Con la coda dell’occhio vedo Didier che si allontana, quasi furtivamente,
assieme a Constance. A un tratto
spariscono dalla mia vista.
Faccio una cosa che non avrei mai fatto in vita mia.
No, non penso a nessuna scenata, non sono il tipo.
Sgattaiolo in camera, lasciando così tutti gli invitati. So benissimo che è
un gesto maleducato, ma lo faccio in modo consapevole, infischiandomene per una
volta delle regole del bon ton.
Incontro Violette quando sto per salire la scalinata che porta alle camere.
Ci guardiamo. Sembra che stia per dirmi qualcosa, ma fermo subito l’uscita
delle sue parole con un gesto della mano. Parole che forse avrebbe vestito con
un cenno di saluto e un sorriso. Non mi dispiace per nulla che quelle parole
mai le sentirò. Mi basta il pesante disagio che mi sommerge.
La lascio così, tra lo stupore e il dispiacere. E salgo di fretta i
gradini. Molto di fretta.
Percorro il corridoio come fossi una ladra e chiudo la porta della suite
matrimoniale al mondo esterno. Mi basta stare così, sola, per un attimo; mi
sento protetta tra queste pareti, ormai non più estranee.
Sì, in questa stanza mi sento protetta nella mia indignazione,
dall’insolenza di mio marito e del “nuovo acquisto dell’ufficio legale”.
Cosa posso fare? Mi chiedo, anche se sono animata dalla pura e semplice
rassegnazione. Guardandomi allo specchio, che diventa l’unico spettatore della
mia fragilità, riesco solo a desiderare di non piangere; non voglio disperarmi,
non voglio reazioni evidenti alla mia crescente e intollerabile frustrazione…
… Il senso di sconforto implode e si traduce in pianto quando esco in
veranda. Le luci della festa, la musica e i rumori attutiti mi riportano a
quando Didier mi aveva chiesto di sposarlo. Era la vigilia di Natale. Scaccio
subito quella scena dalla mia mente e decido di tornare al party. Sì, è proprio
finita tra noi, mi dico. Questo percepisco mentre mi ritocco il maquillage con
un velo di cipria.
Dopo essermi calmata e aver raccolto i cocci di me stessa, torno in
giardino. Didier è…”
Grazie per la sua disponibilità.
Grazie a voi!
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