Interviste culinarie di
Federica Gnomo
Oggi salutiamo e ringraziamo l‘autore Anna
Maria Fabiano – Immagina una piazza – ed. Ferrari ,
per averci aperto la
porta della sua cucina e averci regalato PASTA E PATATE A RA TIEDDRA un piatto tipico cosentino gustosissimo.
La Piazza è il mondo e la sua negazione, è la folla ma anche la solitudine,
è la “roba” ma è anche la fuga da essa. La Piazza è l’emblema della follia,
intesa come rifiuto del compromesso, della menzogna necessaria ma tagliente,
dell’essere come gli altri, per forza, per necessità, per costrizione.
Beh, diciamo che mi piace mangiare, soprattutto negli ultimi anni. Da
ragazza, e anche oltre, ero invece abbastanza distaccata dal cibo, tranne se si
trattava di pizza. Sono innamorata della pizza da sempre. Bene? Se per ‘bene’
si intende roba ricercata no, perché amo molto i cibi semplici e leggeri. Sono
attratta dalla dieta mediterranea: pasta, pomodori, verdure, frutta ecc.
Invito più spesso amici e parenti a casa mia. Mi piace avere gente e mi
piace molto la convivialità. I cenacoli cultural-musicali sono la mia passione.
Non amo apparecchiare la tavola con roba ricercata: preferisco oggetti rustici
e pratici. A casa mia ognuno si deve sentire come fosse a casa propria. Se poi
c’è anche una chitarra e un libro di cui parlare, sono felice. E se è estate e
si può aspettare l’alba assieme, sono… alle stelle.
Si compra cibo pronto ( tramezzini,
pizza, snack) o si cucina anche quando è molto preso dalla scrittura?
Entrambi, anche se preferisco il dolce. Come ho detto, il soggiorno è
adiacente alla cucina e ogni tanto vado a sgranocchiare noccioline e
mandorle o pezzetti di cioccolato (nocciolato e possibilmente Novi). Oppure taralli e mandarini, in
inverno… e chicchi d’uva in estate.
Ne avrei tanti, tutti abbastanza simpatici, ma racconto il più particolare.
Una volta l’ho fatta grossa: era estate e stavo in campagna, al solito con zie
e zii, e le adorate cugine/sorelle. Approfittando
del sonno pomeridiano delle zie, assieme alla mia coetanea Cettina detta Ketti (avevamo tredici anni) ho acceso un piccolo
fuoco, cercando rametti e foglie secche
e qualche pezzo di legno che la contadina affittante teneva da parte. Poi ci siamo messe a pelare patate, e abbiamo
allestito una pasta particolare che naturalmente è venuta tutta bruciata e ci
ha causato una bella punizione per il danno apportato alla pentola. Questo
episodio lo racconto nel mio romanzo “Il colore del cielo”, dove ho inserito
molti episodi della mia infanzia.
Nelle sue presentazioni offre un buffet? Pensa sia gradevole per gli
ascoltatori intervenuti?
Ha mai usato il cibo in qualche storia?
È una ricetta che passa di generazione in generazione a Cosenza. Occorrono
patate tagliate a fette (non grosse né sottili), maltagliati, pomodori freschi a pezzetti (o pelati se è inverno), sale,
origano, aglio e pecorino (ma va bene anche il parmigiano), mollica di pane e
olio d’oliva. Si prepara un sugo freddo con i pomodori a pezzetti, l’origano,
l’aglio, il sale e l’olio.
Che frase tratta dalla sua opera o dalla sua esperienza di scrittore possiamo
portarci nel cuore uscendo dalla sua cucina?
Lei, la protagonista, parla a un consesso immaginario di avvocati, ombre, lettori,
ma soprattutto a Lui, Il Giudice, che
alla fine dovrà pronunciare la sua condanna o la sua assoluzione. Per essere
stata se stessa, per aver scelto e indossato la diversità a costo di ferite
sanguinanti. Per essere stata
addirittura, ché forse la sua nascita è stato solo un errore.
Surreale nel suo incipit e nella prima parte, lo stile diventa narrativo e
colloquiale man mano, per poi tornare alla partenza, ma con tinte più sfumate,
con la rabbia stemperata e con il delirio ormai dilagante. E con lacrime
represse.
Piccolo consiglio per chi si accosta a questo libro: non avere fretta, non
voltare la pagina nell’attesa del colpo di scena. Gustarlo lentamente, come un
vino bianco fresco che ci dia sollievo dall’arsura e al tempo stesso ce ne
provochi dell’altra, di arsura. Quella che ci faccia sentire parte del
consesso, per dimenticare il timbro con cui spesso, incautamente, bolliamo chi non aderisce al sistema.
La prima domanda di rito è: le piace mangiare bene? E cucinare?
Ah, poi son molto golosa di dolci.
Cucinare lo adoro, anche se non sono costante e soprattutto non ho sempre
il tempo per farlo.
Seguo le ricette, mi piace cercarne sempre, ma poi le modifico, perché mi
piace inventare.
Lo fa per dovere o per piacere?
Per entrambi! A seconda delle circostanze. Il dovere c’è, per il bisogno di
“accudire” la famiglia. Il piacere consiste nella possibilità di creare, inventare,
mescolare ingredinti . Un po’ come per la scrittura, dove adoro costruire
personaggi nei quali confluiscono tante personalità diverse, magari conosciute realmente
e da me rielaborate in ottiche sempre nuove, in una sorta di miscellanea
inconsapevole ma cosciente.
Invita amici o è più spesso invitato?
Ha mai conquistato amici o una uomo cucinando?
Penso proprio di sì. Amici tanti. Perché quando mi ci metto, mi riesce
anche di allestire un buffet vario e per decine e decine di persone. Poi ci
sono dei piatti che mi riescono particolarmente. Spesso gli amici vengono a
casa per gustare la mia ‘parmigiana di melanzane’ o i miei variegati antipasti
a base di verdura. Anche mio marito si è “innamorato” della mia cucina,
soprattutto quando riproducevo, ma a modo mio, le pietanze cui era stato
abituato nella famiglia d’origine.
Vivrebbe con una compagna o un
compagno che non sa mettere mani ai fornelli?
Addirittura lo preferisco. Non amo molto avere gente intorno, quando sono
ai fornelli. Non sono attratta dall’uomo che cucina, ecco, anche se sono
vissuta in una famiglia dove i miei fratelli, ad esempio, erano e sono ottimi
cuochi. Il compagno mi piace accudirlo io, e preparargli le sorprese, quando è
stanco e magari un po’ preoccupato. Percepisco la cucina come un modo per
sentirmi femminile e mamma. Lo so che molti chef di riguardo sono uomini, ma la
donna – a mio avviso – ha sempre una marcia in più.
Quando ha scoperto questa sua passione?
Da bambina. Appena potevo, mi mettevo ai fornelli e mi cimentavo in cose
semplici, tipo brodini o il ‘polpettone dolce’ da tenere in ghiacciaia e
offrire alle amiche. Approfittavo
dell’assenza della mamma e poi mi gettavo
nei miei esperimenti, con un leggero batticuore… perché lei era molto pignola e
non desiderava vedere pentole e piatti sporchi!
Ci racconta il suo primo ricordo legato al cibo?
Non so se sia il primo, ma di certo è il più particolare. Da bambina ero
inappetente e soprattutto detestavo la carne. Mia mamma mi mandava spesso a
dormire dalla sorella sia perché ero felice di stare con le mie cugine sia
perché zia e zio avevano il potere di farmi mangiare anche la odiata carne. Una
volta però, presa dalla disperazione per quella bistecca che proprio non ne
voleva sapere di scendere giù, cominciai a guardare con interesse un mobiletto
che stava accanto alla tavola, ma un un po’ discosto dal muro. Così, appena gli
zii si distraevano un attimo, i pezzettini di carne passavano dalla mia bocca
alla mano e da quella … sul pavimento, dietro il mobiletto!
Un altro ricordo è legato a Napoli, dove per la prima volta assaggiai gli
spaghetti alle vongole e mia mamma, che li aveva tanto desiderati, me li
cedette in cambio dei banali spaghetti al pomodoro che io avevo ordinato come
sempre. Potenza dell’amore materno!
Ha un piatto che ama e uno che detesta?
Non amo molto la carne in genere, anche se la mangio e… detesto il fegato,
che mi veniva propinato da bambina perché “mi faceva bene” ma il mio stomaco lo
respingeva. Amo invece la ‘pasta
asciutta’, soprattutto spaghetti, ma qualunque tipo, purché piena di sugo e di
parmigiano.
Un colore dominante proprio di cibi che la disgustano?
Il rosso acceso, colore del sangue delle bistecche. Mi fa pensare
all’animale soppresso e mi angoscia.
Quando è in fase creativa ha un rito scaramantico legato al cibo? Prende
caffè? O tè, una bibita speciale per stare fermo a scrivere?
Quando sono in fase creativa,
sorseggio volentieri la crema di limone.
Nello scrivere ‘Immagina una piazza’ ne ho fatta fuori tanta. È un liquore che
preparo io stessa. Mi scendeva bene, perché scrivere questo romanzo non è
stato facile e quindi mi occorreva addolcirmi il palato, di tanto in tanto. E
poi l’acre del limone e il dolce del latte producono un contrasto che ben si
associa alla mia protagonista e ai suoi dilemmi.
Scrive mai in cucina?
No, mai, ma scrivo in soggiorno che è adiacente alla cucina. Nel caminetto,
sempre acceso d’inverno, arde una bella fiamma… e in estate mi arriva dal portico l’arietta
fresca della Sila non lontana.
In estate invece me ne sto nel mio
studio, che affaccia su un prato verde e dalla cui finestra si gusta un
panorama mozzafiato. Non vedo il mare, anche se è come lo vedessi. Il mare è
sempre presente nei miei romanzi, come è stato detto da più parti, e io lo
sento anche senza fisicità, lo porto dentro. Ho bisogno di guardare paesaggi e
di affondare lo sguardo nella natura, per scrivere.
Se sono molto occupata a scrivere e ho scadenze immediate, capita che io
compri del cibo pronto, ma in genere mi organizzo e cucino anche se sono presa
dalla scrittura, perché comunque ho una serie di piatti veloci da realizzare.
Anzi, mi viene meglio scrivere se alterno la cucina alla parola da togliere
fuori. Così l’ispirazione guadagna nutrimento!
Che tipo di cibo desidera di più quando scrive ed è preso dal suo lavoro?
Salato o dolce?
Ha un aneddoto legato al cibo da raccontarci? O una cosa carina e
particolare che le è accaduta?
Lei che tipo di scrittore è? E quando esce a cena con i suoi amici oppure per festeggiare una pubblicazione che tipo di locale
preferisce?Cosa tende a ordinare?
Che scrittrice sono? Scrivo romanzi
e racconti di memoria, o sociali e comunque sempre a sfondo psicologico e con
un finale catartico. Ho per alleata una tendenza alla psicologia che mi spinge
a scavare nelle ragioni dei miei personaggi, che sono spesso donne ma anche
uomini particolari, anche se sempre filtrati dallo sguardo femminile. Come in “Immagina
una piazza”, dove la mia protagonista lotta a modo suo contro un mondo che lei
avverte ostile e pieno di compromessi, e sceglie però la strada più difficile.
Quando vado a cena fuori, solitamente preferisco locali molto intimi, e
possibilmente rustici nell’arredamento. Sono abitudinaria e tendo a tornare
sempre negli stessi posti, dove sono cliente abituale e conosco bene i gestori,
con i quali sono in ottimi rapporti. Per festeggiare una pubblicazione o un
evento letterario, di solito scelgo locali della città vecchia, se sono a
Cosenza, e se in altre città mi piace comunque cercare luoghi tipici, un po’ crepuscolari,
magari in viuzze o angoli appartati, con una luce soffusa e romantica, molto
parigina. Con tanto legno, tinte pastello e se possibile musica diffusa.
Quanto alle ordinazioni, preferisco i primi piatti o gli antipasti. A volte
anche la carne e il pesce, a seconda dell’umore.
Tende a fare un aperitivo con due olive e patatine o a offrire quasi un
pasto completo?
Mi è capitato di organizzare varie tipologie di presentazioni, sia di
romanzi miei sia di altri, e qualche volta sì, ho anche offerto un buffet, come
è successo alla Libreria “Equilibri” di Milano dove è stata anche organizzata
una degustazione di vini dell’Oltre Po
provenienti dalle “Cantine Rossella”
Ad esempio in “Immagina una piazza” ci sono passi che ricordano cibi o profumi di
cibo?
Il cibo è mai protagonista?
Ho usato il cibo qualche volta, sì, o per sottolineare intimismo (birrerie,
ad esempio, o locali che sappiano di mare con odore di pesce e fumo denso, o
bettole in cui assaggiare pecorino piccante e buon vino rosso), oppure assenza
di cibo per fare cenno alla magrezza del personaggio di turno. In questo romanzo
in particolare sì, ci sono dei passi che alludono al cibo, come gelati alla
panna, o panetterie, o bar. Il tutto per creare metafore e atmosfere.
“Immagina una piazza” a che ricetta lo legherebbe, e perché?
Lo legherei… alla caponata. Quella siciliana, dico. Agrodolce. Ricca di
ingredienti. Con il sapore dolciastro in sordina che fa da contrasto al sapore
deciso di base. Zucchero e aceto. Proprio perché è una trama piena di
contrasti, come la protagonista che mescola l’amore con l’odio, il perdono con
il rancore, la vita con la morte.
Dolce e salato, e soprattutto complessità di elementi.
Per concludere ci potrebbe regalare una sua ricetta? Quella che le riesce
meglio?
Pasta e patate a ra tieddra. Piatto tipico cosentino.
Si dispongono nella teglia le patate, sopra i maltagliati (tutto crudo) e
il sugo prima preparato. Poi il pecorino, e si ricomincia il giro. Si possono
fare più strati. Infine si copre il tutto con la mollica di pane e un filo
d’olio e si mette in forno.
Cottura molto lenta, con aggiunta di acqua tiepida di tanto in tanto,
facendola scendere ai bordi. Un tempo la si cuoceva direttamente sulla piastra,
in una pentola di alluminio.
Deve essere buonissima!
Quale complimento le piace di più come cuoco?
E come scrittore?
Che riesco a cucinare piatti saporiti che però non “restano sullo stomaco”.
(uso i condimenti con parsimonia).
Come scrittrice mi piace quando mi dicono che emoziono, che i miei
personaggi toccano il cuore e le loro storie fanno riflettere.
«Non avere paura»
le dico, «non ti faranno niente. Ci sarò io a difenderti. Sei una bambina
piccola, anche se ti hanno truccata da vecchia. Fanno sempre così, sai? Truccano
tutto, tutto truccano per mascherare il mondo e sottrarlo all’Occhio che
vigila. Ne fanno tante, bambina, per chiudere il cerchio. Non sopportano le
linee libere. Non vogliono incidentali ma solo parallele. Vogliono solo questo,
loro, vogliono che tutto si chiuda e così sia.»
Grazie per la sua disponibilità
Grazie a Federica Gnomo per questo spazio dedicato al mio romanzo connesso... all'arte culinaria. Nessi che alla fine escono facili facili! In fondo tutto riconduce alla comunicazione, in un modo o nell'altro. Anna
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaGrazie a Federica Gnomo per questo spazio dedicato al mio romanzo connesso... all'arte culinaria. Nessi che alla fine escono facili facili! In fondo tutto riconduce alla comunicazione, in un modo o nell'altro. Anna
RispondiElimina"Truccano tutto, tutto truccano per mascherare il mondo e sottrarlo all’Occhio che vigila." E' un libro tutto da leggere, ogni parola ti cattura.
RispondiEliminaBella intervista sopratutto quando leghi il libro alla caponata dando un significato straordinario.
Rosalba
Grazie, Rosalba. Sì, in effetti l'idea della caponata è nata come idea fulminante di un percorso. Strano come a volte possano scattare certi meccanismi mentali. Brava la nostra Federica Gnomo per l'elaborazione delle sue domande!
EliminaL'abbinamento cibo-cucina-cura-parole è un tema difficile da affrontare: molte di noi credo che lo vivano, con più o meno consapevolezza e questo forse determina il parlarne o meno. C'è anche una componente familiare in questo, e per famiglia intendo anche un clima, un'epoca, un modo di fare, di vivere, valori di riferimento, e quelle magnifiche, silenziosissime donne che cucinavano e amavano con forza e discrezione estreme.
RispondiEliminaCettina
Perfettamente d'accordo. Anzi, ti dirò di più: nel rispondere alle domande di questa intervista, ho preso coscienza proprio di questa dimensione, anche se lo spunto è stato il senso del romanzo "Immagina una piazza" che parla di tutt'altro. Le tue parole poi mi fanno ancora di più avvicinare a quella presa di coscienza. Cibo-cucina-cura-parole. Sì, me gusta... Grazie, Cettina!
EliminaIo ringrazio gli autori quando riescono a comprendere come ogni aspetto della personalità guidi alla loro conoscenza.Quindi grazie ad Anna che ha raggiunto 100 lettori!
RispondiEliminaGrazie a te, Gnoma! Per questa piacevole opportunità!
RispondiEliminaCucina-parole: connubio straordinario. E poi perfetto il paragone tra la caponata e il libro. La tua sensibilità rende tutto speciale. Grazie Anna.
RispondiEliminaRoberta
Lieta che tu abbia colto il senso di Immagina una piazza/caponata. Che poi è malinconia e anche complessità strutturale, ma alla fine quel senso di liberazione dal male che in qualche modo dovrebbe essere la catarsi finale. Grazie del passaggio, Roberta!
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