lunedì 12 novembre 2012

IN CUCINA CON LO SCRITTORE: Stefania Mereu


Interviste libro culinarie  di Federica Gnomo 




Oggi salutiamo e ringraziamo Stefania Mereu, autrice sarda, esordiente con il romanzo: “Lo specchio di Eveline”, Photocity Edizioni (Napoli, Gennaio 2012), per averci aperto la porta della sua cucina.
                
Ci parli un pochino del suo romanzo.
Per presentare il romanzo, mia prima monografia, vorrei precisare che la copertina è stata realizzata da Ugo Ciaccio, e riportare la quarta di copertina, scritta dalla editor, Chiara Tortorelli, che ha curato il testo per la collana Homo Scrivens, diretta da Aldo Putignano (tutti napoletani, insomma, e che ringrazio per la bella esperienza che ho condiviso con loro):

Cosa accade nel momento esatto in cui il presente incontra il passato?
Un bambino, un quadro ed Eveline, una donna malinconica, vivono ancora tra le pareti di una casa che custodisce con cura i suoi misteri. Julia, invece, è una donna di oggi, moderna, indipendente, bella, che si innamora di quella casa antica piena di segreti…
Nello scenario di una villa d’altri tempi s’incontrano, riflesse in uno specchio, due donne separate dai secoli eppure unite da qualcosa d’impalpabile che a stento sembra rivelarsi.
La prosa della Mereu ci trasporta fuori dal tempo, a metà strada tra realtà e sogno, alla ricerca di una verità nascosta attraverso intrighi e amori millenari, fino a raggiungere il cuore di un finale inaspettato.”


Ora veniamo al cibo! La prima domanda di rito è: le piace mangiare bene?
Bene, certo! Nel senso di qualità, e penso in modo convinto che anche le ricette semplici richiedano preparazione e ingredienti di qualità. Come per la scrittura o altra forma di arte anche quella culinaria necessita di tecnica e prima o poi bisogna impararla anche nell’improvvisare inventando nuove ricette. Qualità, anche senso che eccedere nei pasti consente solo di perdersi il meglio, magari portate che arrivano dopo, delle volte. Durante una cena, per esempio, preferisco più assaggi che mangiare una o due portate.
E cucinare?
Mi piace tantissimo, è uno dei miei hobby preferiti e adoro cucinare fin da piccolissima, dove per usanza, in Ogliastra, dove sono nata, precisamente in un piccolo Paese chiamato Jerzu, le bambine venivano abituate presto su ogni cosa che riguardasse l’indipendenza, lo vivevamo come un gioco, specie in tutto ciò che riguardava la casa, quindi anche la cucina e l’arte culinaria. Ho riprodotto vecchie ricette tradizionali anche grazie al ricordo delle varie fasi di preparazione perché bazzicavo in cucina quando venivano preparate pietanze o dolci tradizionali, particolari, magari per eventi come matrimoni, battesimi ecc.
All’epoca non si svolgevano in ristorante, ma richiedevano preparazioni lunghissime, notti comprese.
 Lo fa per dovere o per piacere?
Sicuramente è un piacere. Diventa un dovere, nel senso che sveltisco e quindi uso preparare cose più veloci quando ci sono delle priorità. Per esempio, per motivi di lavoro. Oppure, seppur è molto indipendente, quando mia figlia mi chiede qualcosa che riguarda la scuola (tanto mi diverto tantissimo), o se sto scrivendo, revisionando un manoscritto, o se sono nella fase di studio, oppure ultimare di leggere un romanzo che… prende!
 Invita amici o è invitato?
In genere tutt’e due le cose, ma se sono invitata e ho confidenza è difficile che non mi armi di grembiule, che non leghi i capelli e che non mi intrufoli ad aiutare e fare qualcosa: bellissimi momenti che sempre conservo tra i ricordi. Considero la cucina un posto magico e dove le persone si aprono meglio che nel contesto di un salotto. E ci si diverte un mondo!
 Ha mai conquistato amici o un uomo cucinando?
Sicuramente! Ma sono anche stata conquistata in questo modo. Con gli amici sono “chiamata” per gli antipasti, per esempio. Mi piace molto decorare, da sempre, così come anche i dolci o tutto ciò che è ricevere. Quindi anche il presentare la tavola in un certo modo, a meno che non ci sia qualche improvvisata e allora è diverso, ci si adatta anche a una spaghettata all’aglio, olio e peperoncino.
Vivrebbe con  un compagno che non sa mettere mani ai fornelli?
Nel caso, avrei fatto in modo che imparasse! Mio marito è anche qualificato in questo campo e ho imparato molto da lui come chef, è giusto che lo dica e ribadisco che la tecnica aiuta e diciamo che corrisponde al lavoro di un editor in un libro che merita di uscire.
Quando ha scoperto questa sua passione?
Da piccolissima, ripeto e ho un aneddoto che mi riporta indietro a quando avevo meno di sette anni. Lo dirò più in là…
Ci racconta il suo primo ricordo legato al cibo?
Il cibo è qualcosa che deve dare piacere al palato, ma anche alla vista, all’odorato e al tatto.
Il ricordo è questo: forse avevo cinque anni quando incuriosita dalla bellezza dei fiori di calle ne avevo rubata una dal vaso, a casa della nonna materna. Mi ero nascosta e avevo voluto ardentemente assaggiare il gambo che trovavo invitante, succosissimo… ma fu un’esperienza negativa al palato, che ancora ricordo bene anche come sapore, per carità!
Ha un piatto che ama e uno che detesta?
Adoro gli antipasti, ma anche i primi piatti conditi con verdure e mantecati. Meno la carne che però mi piace cucinare, o anche il pesce. Detesto (senza se e senza ma) le lumache, i bocconi di mare, i tartufi e… il coniglio, ma per quello c’è un motivo legato all’aneddoto che dirò dopo. Tutto il resto lo gusto senza problemi, anche un pezzo di pane carasau con sopra il filo d’olio extravergine d’oliva e sale (anzi accompagna bene gli antipasti e non solo di mare! Ed è un ottimo stuzzichino).
Un colore dominante proprio di cibi che la disgustano?
Tutti i colori sono colori, anche per i cibi che non prediligo e che ho detto prima. Trovo affascinante anche un piatto al nero di seppia o bellissimo l’aspetto di una pasta alla carbonara ben fatta, simpatico un antipasto con forme di animali o fiori ecc. (mi diverte tanto prepararli e per me è un gioco davvero bello e rilassante… spesso ho fatto anche dei quadri che componevano un antipasto e ho gli attrezzi che porto sempre dietro, non si sa mai! E non ne faccio mai  uno uguale, però!).
Quando è in fase creativa ha un rito scaramantico legato al cibo?
Sì, e diciamo che è legato alla mia cultura ogliastrina, grazie alla nonna e alla mamma. Nell’ordine: il segno della croce, capelli legati o raccolti da un fazzoletto, grembiule, poi si entra in cucina e sugli ingredienti di nuovo il segno della croce.
Prende caffè? O tè, una bibita speciale per stare fermo a scrivere?
Quando scrivo non mi accorgerei neanche se smettessi di respirare. Mi reco in un altro mondo e mi volano le ore senza che io mi accorga. Spesso dimentico anche i più normali bisogni fisiologici come bere o altro…
Scrive mai in cucina?
Scrivo dappertutto, nel senso che osservo molto e spesso devo avere almeno carta e penna in borsa. L’osservare tutto, ma in modo discreto, è un gioco che facevo fin da bambina e se trovo un personaggio interessante o una situazione particolare prendo appunti ovunque io mi trovi. Ma per scrivere, come per leggere, è necessario fermare tutto, come se il mondo smettesse di girare: una sensazione intima che cattura senza appello. E meno male.
Altrimenti dove ama scrivere?
Nella scrivania di casa, se si tratta di manoscritti in scrittura o in revisione o stesure di racconti. Ho una calligrafia orribile, ho usato la macchina da scrivere, ma il computer è ormai insostituibile per scrivere e ci si deve “fermare” e fermare il tempo.
E a che ora le viene più naturale?
Ogni momento libero. Scrivo la notte, nei week end, quando sono in ferie, o quando sono stata costretta (raramente, per fortuna) a sottostare a riposi forzati: es. in malattia.
 Si compra cibo pronto ( tramezzini, pizza, snack) o si cucina anche quando è molto preso dalla scrittura?
Non amo i cibi pronti, a eccezione della pizza. Mi piace anche la pizza fatta in casa e mi diverte anche “avere le mani in pasta”, quindi fare la pasta fresca per i diversi usi.
Che tipo di cibo desidera di più quando scrive ed è preso dal suo lavoro? Salato o dolce? Dipende. Prediligo il salato, comunque. Es. Olive.
Ha un aneddoto legato al cibo da raccontarci? O una cosa carina e particolare che le è accaduta?
L’aneddoto ve l’ho annunciato prima e sono tra le cose che non si dimenticano; se ci penso ogni volta sorrido, ora lo ritengo comico, addirittura, ma all’epoca l’avevo vissuto un po’ come un dramma d’infanzia. Premetto che ho avuto una madre di salute cagionevole fin da piccola e soggetta spesso a lunghi ricoveri per interventi, terapie, ecc. Uno di questi ricoveri avvenne nel ’72 e non avevo ancora compiuto i sette anni. Io e miei fratelli (sono la più piccola e ho un fratello e una sorella di poco più grandi di me) stavamo spesso con la nonna materna quando lei era a Cagliari in ospedale e durante il giorno e la sera con mio padre. Un giorno mi trovavo sola in casa, lo ricordo come fosse ieri e al mio piccolo paese era normale che potesse accadere. Avevo visto il coniglio tagliato e messo sotto aceto dalla nonna per poterlo cucinare alla cacciatora. Siccome osservavo sempre anche come preparavano i pasti furtivamente mi ero messa a cucinarlo io quel giorno. Quanto ero felice di poter fare la donna grande che aveva una cucina tutta sua! Avevo fatto tutto grazie alla memoria che avevo di mia madre che lo preparava, come se fosse presente e mi guidasse in ogni fase. Peccato che scambiai lo zucchero con il sale e venne fuori un coniglio alla cacciatora un po’ “caramellato”. C’ero rimasta malissimo, tutti mi incoraggiavano, dicevano che ero stata brava e mio padre ne mangiò anche un pezzo facendo finta di assaporarlo come fosse la cosa più buona. Mio fratello e mia sorella, invece, avevano un’espressione che diceva tutto il contrario. Avevo capito, che era disgustoso e che mio padre l’aveva mangiato solo per amore paterno. Averci provato era importante e fu la nonna dirmi queste parole. Non le dimentico e prima di darmi per sconfitta, in tutto, sono ormai abituata a provarci. Così è per tutte le cose e forse grazie a quell’episodio.
Lei è un’autrice di racconti, romanzi, che abbracciano generi come il romanzo sociale, con vena noir o mistery, quando esce a cena con i suoi figli, o amici  che tipo di locale preferisce? Ho una figlia e si esce sempre meno ormai. In genere va benissimo anche una pizzeria e i ristoranti li frequento più raramente, visto il periodo, o più per motivi legati al mio lavoro.
Cosa tende a ordinare in un locale?
Nella fattispecie una pizza (mi piace quella ai peperoni grigliati e ridotta, oppure alla salsiccia sarda secca e pecorino), Non deve mancare il dessert, in genere gusto una crema catalana o gelato al tartufo bianco affogato nel caffè caldo.
Se sono in ristorante mi faccio guidare da maitre o dal cameriere!
Ha mai usato il cibo in qualche storia?
Tante volte, direi quasi sempre.
Nella quasi totalità delle storie che ho scritto, anche racconti, così come ne Lo specchio di Eveline, ci sono passi che ricordano ciò che dei sensi è stimolato anche dal cibo.
Lei evoca con il cibo? Sì, Anzi, il cibo spesso è legato ai ricordi. Un po’ come fare una torta, usare il lievito Pane degli Angeli della B… (non so se si può citare il nome commerciale) e ricordare “Maria Rosa”, per intenderci!  Anzi, a volte la canticchio!
Il cibo è mai protagonista? Sì, ripeto, lo è stato in varie storie.
Anche nelle letture si impara l’importanza del cibo e siamo anche noi una generazione che ha sempre “mangiato” per almeno tre pasti al giorno. Mi viene in mente un esempio:
“ Cecità” di Saramago, libro che trovo anche magistrale nella sua scrittura (ma lo amo anche come scrittore, meritato Nobel) è il primo libro che mi viene in mente e dove il cibo è protagonista in modo quasi prorompente, significativo. Questa cosa mi aveva quasi turbato per la crudezza che aveva generato andando avanti nella lettura e consiglio la consiglio. Usare l’espediente letterario come faceva lui, contrattare il tutto con il lettore vuol dire farsi catturare dal testo, dalla storia, personaggi e contesti e valutare anche ciò che l’essere umano è capace di fare in negativo, o positivo, pur di trovarsi in una situazione all’apparenza impossibile e “mangiare” o dividere il cibo diventa vitale non tanto per il sostentamento in sé … un libro che non ha bisogno di essere legato a ricette particolari proprio perché è il cibo come “ricchezza” fonte di avarizia e cattiveria pura  o risorsa da condividere. Questo che fa pensare e non svelo l’espediente per chi non l’avesse letto. Cerco sempre anche io di inserire l’espediente letterario e grazie a esso il libro si scrive da solo, con pochi altri elementi che poi mi portano a studiare l’epoca, usi, costumi ecc. e la cosa mi assorbe sempre e in modo rinnovato.


Nelle sue presentazioni offre un buffet?
No, trovo che sia un “non valore aggiunto”.
Lo considero quasi spocchioso. O perlomeno se io partecipo a qualche presentazione di altri autori non ho alcuna necessità di mangiare. Diciamo che è l’ultimo pensiero.
Se dovessi offrire qualcosa, penso che metterei al massimo una coppa di cioccolatini all’uscita, rigorosamente solo all’uscita, magari legati uno a uno con un segnalibro che abbia stampata la cover e la quarta del libro o una citazione.
Per concludere ci potrebbe regalare una sua ricetta? Quella che le riesce meglio?
Certamente. Mia figlia ha scelto questo piatto che vi propongo e l’aveva chiamato “ La pasta dell’amore”. A questo piatto è legato un momento particolare, purtroppo triste, e volevo toglierle quell’ombra sul viso. Mi ero inventata una ricetta “magica” capace di far sorridere, lei era piccola e aveva funzionato. Ancora oggi la preparo ed evoca in mia figlia qualcosa che la fa stare bene sempre.
Eccovi la ricetta, semplice e veloce:

FARFALLE DELL’AMORE
Ingredienti:
Cipolla, Zucchine, pomodorini ciliegino, basilico fresco, olio d’oliva extravergine, origano, sale q.b., farfalle (o comunque pasta corta, tipo mezze penne).
Esecuzione:
Far appassire la cipolla tritata con l’olio extravergine in una padella antiaderente o in ceramica, abbastanza capiente. Tagliare le zucchine a quarti di rondelle e unirle alla cipolla e farle cuocere a fuoco abbastanza vivo, Tagliare in due i pomodorini e unirli poco prima quasi a cottura ultimata delle zucchine. Regolare di sale, e nel frattempo preparare la pasta in abbondante acqua salata. Tagliuzzare del basilico fresco, unirlo al condimento insieme a una spruzzata di origano. Quando è a metà cottura la pasta versarla dentro la padella non scolandola bene e se necessario far finire di cuocere la pasta con il condimento unendo qualche cucchiaio con un po’ di acqua di cottura (in questo modo, l’amido della pasta non verrà perso del tutto nell’acqua). Per impiattare, dopo aver adagiato la pasta sul piatto preparo  delle rose con la buccia di pomodoro e sotto adagio delle foglie fresche di basilico. Poi, spolvero il piatto con il basilico tritato di fresco (vedi foto).
Servire subito e buon appetito!
Quale complimento le piace di più come cuoca? “Tutto buonissimo!” Sentire questo mi rende felice  e ripaga di ogni fatica legata alla preparazione!
E come autrice? Tra i tanti messaggi ricevuti (in seconda pagina del libro c’è il mio indirizzo di contatto elettronico in FB) riporterei il commento di una lettrice romana che mi aveva scritto in privato un bellissimo messaggio. Non lo faccio, ma mi aveva sorpreso in modo positivo per ciò che mi aveva scritto. Dopo averle chiesto il contatto in Facebook mi ha poi scritto un commento dove diceva che per ben tre volte l’aveva letto! Spero di incontrarla un giorno, conoscerla di persona. Penso sia proprio una brava persona, me lo sento.
Che frase tratta dalla sua opera o dalla sua esperienza possiamo portarci nel cuore uscendo dalla sua cucina?
Trarrò tre pezzi che riguardano un party a Villa Eveline, a Val d’Oise, vicino a Parigi e quindi ho l’occasione per dire che non è un romanzo ambientato in Sardegna. Altri manoscritti, sì, lo sono, ma non mi piace scrivere solo di Sardegna e penso per davvero che tutto il mondo è paese.  Ho scelto parti che non svelano la trama, che non contengono cose particolari, ma potrebbero essere significative per il contesto e non solo per quello:
“… Anche io chiudo il diario, lo nascondo di nuovo tra le mie bozze e mi occupo del party per alcune ore.
Venerdì arriva puntuale.
Ce l’ho fatta, sono esausta ma anche soddisfatta: l’evento voluto da Didier sta per avere luogo. Non è stato facile, tutto però è pronto fino all’ultimo dettaglio. I gazebo, con ogni ben di Dio, sono stati allestiti a bordo piscina. I camerieri nella loro candida divisa si aggirano per ultimare la disposizione dei piatti e delle bevande sui lunghi tavoli coperti da tovaglie di lino color panna e sopra delle guide color ocra. I fiori, il verde del giardino, gli alberi, cespugli e le siepi del parco rendono la scenografia un tripudio di colore e vita. Ho perlustrato tutto quanto, prima di prepararmi. Sono ampiamente soddisfatta del risultato finale e… gli invitati stanno per arrivare.

… L’orchestra inizia a suonare, quando insieme a lei torno verso il giardino.
Io e Didier apriamo le danze: quello sarà l’unico ballo che faremo insieme in tutta la serata. Per il resto della festa è Constance che godrà delle sue braccia. Converso ancora con Jacques, che non ama ballare, poi ancora con Cecile, i miei suoceri, alcuni dirigenti dell’azienda e altri invitati.
Non vedo l’ora che la serata finisca.
L’oscurità predomina tutto a un tratto, avvolgendo nelle sue spire il crepuscolo e calando severa nel parco. Solo lo spazio dedicato al party riesce a contrastarla, con le luci che lo illuminano.
Con la coda dell’occhio vedo Didier che si allontana, quasi furtivamente, assieme a  Constance. A un tratto spariscono dalla mia vista.
Faccio una cosa che non avrei mai fatto in vita mia.
No, non penso a nessuna scenata, non sono il tipo.
Sgattaiolo in camera, lasciando così tutti gli invitati. So benissimo che è un gesto maleducato, ma lo faccio in modo consapevole, infischiandomene per una volta delle regole del bon ton.
Incontro Violette quando sto per salire la scalinata che porta alle camere. Ci guardiamo. Sembra che stia per dirmi qualcosa, ma fermo subito l’uscita delle sue parole con un gesto della mano. Parole che forse avrebbe vestito con un cenno di saluto e un sorriso. Non mi dispiace per nulla che quelle parole mai le sentirò. Mi basta il pesante disagio che mi sommerge.
La lascio così, tra lo stupore e il dispiacere. E salgo di fretta i gradini. Molto di fretta.
Percorro il corridoio come fossi una ladra e chiudo la porta della suite matrimoniale al mondo esterno. Mi basta stare così, sola, per un attimo; mi sento protetta tra queste pareti, ormai non più estranee.
Sì, in questa stanza mi sento protetta nella mia indignazione, dall’insolenza di mio marito e del “nuovo acquisto dell’ufficio legale”.
Cosa posso fare? Mi chiedo, anche se sono animata dalla pura e semplice rassegnazione. Guardandomi allo specchio, che diventa l’unico spettatore della mia fragilità, riesco solo a desiderare di non piangere; non voglio disperarmi, non voglio reazioni evidenti alla mia crescente e intollerabile frustrazione…

… Il senso di sconforto implode e si traduce in pianto quando esco in veranda. Le luci della festa, la musica e i rumori attutiti mi riportano a quando Didier mi aveva chiesto di sposarlo. Era la vigilia di Natale. Scaccio subito quella scena dalla mia mente e decido di tornare al party. Sì, è proprio finita tra noi, mi dico. Questo percepisco mentre mi ritocco il maquillage con un velo di cipria.
Dopo essermi calmata e aver raccolto i cocci di me stessa, torno in giardino. Didier è…”

Grazie per la sua disponibilità.
Grazie a voi! 

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